IPERSTIMOLAZIONE OVARICA CONTROLLATA – OPTIMIST trial
Articolo pubblicato su fondazione Merk Serono - Iperstimolazione ovarica controllata – OPTIMIST trial
dott. Kunderfranco Alessandro
La fecondazione in vitro (FIV) è uno tra i trattamenti inizialmente consigliati nelle coppie subfertili, nonostante risulti estremamente costoso principalmente per il costo dei farmaci impiegati [1].
L’iperstimolazione ovarica controllata, ovvero la somministrazione giornaliera di gonadotropine esogene (FSH o FSH e LH) per indurre la crescita multi-follicolare, è una parte essenziale della FIV per ottenere ovociti che verranno infine fertilizzati in vitro. Nella pratica clinica comune, gli specialisti della riproduzione, nella scelta del dosaggio da prescrivere di gonadotropine esogene, si basano in particolar modo su esperienza e giudizio personale in quanto, sino a epoca molto recente (ESHRE Ovarian Stimulation for Ivf/Icsi) [2], non esistevano linee guida ampiamente condivise.
Lo scopo della maggior parte dei cicli di FIV è l’ottenimento di un embrione che porti alla nascita di un bambino sano. Si ritiene che recuperare un certo numero di ovociti di alta qualità sia un passo fondamentale in questo processo; il numero di ovociti recuperati, fattore indipendente nel predire la possibilità di gravidanza [3,4] e il numero di embrioni/blastocisti idonei per il trasferimento, dipendono generalmente dalla dose di gonadotropine utilizzata [5], dal tipo di protocollo di stimolazione [6] e dal profilo della paziente [7,8], con particolare riferimento all’età e alla riserva ovarica [9,10]. Infatti, generalizzando, donne che ricevono dosi maggiori di gonadotropine produrranno più follicoli di quelle che ricevono basse dosi, ma la risposta ovarica dipende principalmente dalla singola riserva ovarica; nelle donne con bassa riserva ovarica non è possibile supplire a questa situazione aumentando la dose di gonadotropine somministrate [11].
Scegliere la dose ottimale di gonadotropine da somministrare, finalizzata a ottenere un numero accettabile di ovociti allo scopo di aumentare la prevalenza di coloro che risponderanno in modo ottimale alla terapia, risulta complicato, poiché ogni donna che accede al programma di fertilizzazione in vitro è contraddistinta innanzitutto da una diversa riserva ovarica e di conseguenza da una differente risposta alla terapia stessa [7,8].
Coloro che rispondono in modo subottimale alla terapia (poor responder) risultano svantaggiate con minori possibilità di ottenere una gravidanza. Risultano inoltre a maggior rischio di cancellazione dei cicli di stimolazione e infine interruzione anticipata (dall’inglese drop-out) del trattamento di fertilizzazione in vitro prima dell’ottenimento del loro obiettivo, la gravidanza [12]. Diversamente, coloro che rispondono in modo eccessivo alla terapia di iperstimolazione ovarica sono in particolar modo a rischio di sindrome da iperstimolazione ovarica (OHSS). Tale condizione può comportare necessità di ricovero ospedaliero e fenomeni tromboembolici potenzialmente pericolosi per la vita; forme lievi o moderate di OHSS si verificano rispettivamente nel 20-33% e 3-6% di tutti i cicli di stimolazione ovarica, mentre la forma grave della sindrome ha un’incidenza tra lo 0,1 e il 2% [13]. Alla luce della forte correlazione esistente tra iper-risposta alla terapia con gonadotropine e rischio di OHSS risulta fondamentale ridurre l’incidenza di iper-risposte.
È possibile predire la risposta ovarica con buona approssimazione mediante l’utilizzo di determinati test di riserva ovarica. I fattori predittivi della riserva ovarica forniscono una stima indiretta della coorte di follicoli antrali reclutabili mediante terapia, all’inizio di ogni ciclo ovarico [14,15]. Sia l’AMH (ormone anti-mulleriano) sia la conta mediante indagine ecografica dei follicoli antrali (AFC – follicoli con diametro entro 2 e 10 mm) sono considerati degli indici affidabili di riserva ovarica [16,17]. A differenza della AFC, il dosaggio dell’AMH su siero mostra minime variazioni intra- e interciclo ovarico e può essere applicato da tutti i clinici perché non è soggetto a errore dell’osservatore; per queste ragioni l’AMH è ampiamente considerato un biomarker affidabile della risposta ovarica [18].
L’AMH è un membro dei fattori di crescita della famiglia B prodotti dalle cellule della granulosa dei follicoli [19]. I più alti livelli di AMH sono stati riscontrati nei follicoli secondari, pre-antrali e nei più piccoli follicoli antrali (con diametro inferiore a 6 mm) [20], mentre la produzione di questo ormone è praticamente nulla nei follicoli che si trasformano in dominanti [21]. L’AMH è sostanzialmente indosabile alla nascita, ha un picco dopo la pubertà e poi diminuisce progressivamente con l’età e ridiventa indosabile con la menopausa [22].
Sia l’AMH sia l’AFC vengono comunemente impiegati per individualizzare la dose di gonadotropina da utilizzare sulla singola paziente con l’obiettivo di avere una stimolazione personalizzata (tailored), cercando di evitare il verificarsi di risposte inappropriate, condizioni di iperstimolazione ovarica, cancellazione dei cicli, interruzioni anticipate del percorso e, soprattutto, diminuire i costi relativi degli stessi percorsi [23].
Nella pratica comune, tipicamente ci si basa sui test di riserva ovarica per impostare la dose iniziale di gonadotropine per la stimolazione ovarica [24], al fine di cercar di ridurre la variazione nella risposta ovarica nei diversi soggetti. In generale, implica somministrare dosi più elevate alle donne con una bassa riserva ovarica e dosi più basse a quelle con un’alta riserva ovarica.
Con la medesima finalità, non mancano autori come La Marca e colleghi che hanno sviluppato algoritmi che combinano, oltre agli indici di riserva, l’età della paziente [25].
Considerando che tra gli obiettivi di un percorso di fertilizzazione in vitro, in primo luogo, è fondamentale l’efficacia del trattamento in termini di tasso di gravidanza cumulativa per ciclo di stimolazione iniziato (CLBR) e tasso di nati vivi per ciclo iniziato (LBR) [2], gli studi olandesi OPTIMIST hanno cercato di rispondere alla domanda se somministrare una dose di gonadotropine standard, rispetto a una personalizzata, possa determinare esiti clinici migliori (CLBR e profilo di sicurezza) e diminuire i relativi costi nella pratica clinica comune [26,27].
Nel primo studio OPTIMIST (Individualized versus standard FSH dosing in women starting IVF/ICSI: an RCT. Part 1: The predicted poor responder) [26], che ha coinvolto donne con AFC <11, e quindi più propense a rispondere in modo subottimale alla terapia, non si sono osservate differenze dal punto di vista dei tassi di gravidanza cumulativa (CLBR), se trattate mediante terapia standard (150 UI/die di gonadotropine) o se trattate mediante terapia individualizzata (225 UI o 450 UI/die); l’individualizzazione della terapia si è dimostrata solo più gravosa dal punto di vista economico [26]. Nonostante i risultati raggiunti, sono stati evidenziati maggiori tassi di interruzione della terapia prima del prelievo ovocitario (20,3% rispetto 9,6%), maggiori tassi di risposta subottimale (<5 ovociti al recupero ovocitario nel 49,5% rispetto al 34,9%), meno ovociti recuperati e meno embrioni da trasferire, oltreché maggiori aumenti di dose di gonadotropina in corso di stimolazione, alla luce della risposta, nelle donne trattate con dose standard rispetto alla terapia individualizzata [26]. Il risultato di non inferiorità della stimolazione standard rispetto a quella personalizzata è stato comunque ottenuto analizzando esclusivamente coloro che avevano completato il percorso e non secondo un’analisi “intention-to-treat” basata sugli intenti iniziali di trattamento e non sui trattamenti effettivamente somministrati [28].
Nel secondo studio OPTMIST (Individualized versus standard FSH dosing in women starting IVF/ICSI: an RCT. Part 2: The predicted hyper responder) [27] che ha coinvolto donne con AFC >15, e quindi propense a un’iper-risposta alla terapia, non si sono osservate differenze dal punto di vista dei tassi di gravidanza cumulativa (CLBR) qualora trattate mediante terapia standard (150 UI/die di gonadotropine) o mediante dose ridotta (100 UI/die). Limite dello studio, dichiarato dagli stessi autori, è che il numero di pazienti arruolate, probabilmente, non era sufficientemente vasto per poter cogliere delle differenze statisticamente significative di CLBR [27].
Sempre nello stesso studio non sono state osservate differenze significative per quanto riguarda le probabilità di incorrere nella sindrome da iperstimolazione lieve o moderata, mentre si sono osservati maggiori tassi di interruzione della terapia prima del prelievo ovocitario nel primo ciclo di stimolazione (20,9% rispetto 3,4%), oltre a maggiori tassi di risposta subottimale nel primo ciclo (cancellazione ciclo per ipo-risposta o <5 ovociti al recupero ovocitario nel 29% rispetto al 14,3%), meno ovociti recuperati e conseguentemente meno embrioni da trasferire, nelle pazienti trattate con dose ridotta rispetto a 150 UI/die [27].
Alla luce della risposta subottimale nel primo ciclo (57,3% rispetto 14%), vi è stata una maggiore necessità di aumentare la dose di gonadotropina prescritta nelle successive stimolazioni nelle donne trattate con dose ridotta rispetto a 150 UI/die [27].
Sulla base dei risultati, gli stessi autori ipotizzano che per le prevedibili iper-responder possa essere consigliabile una terapia giornaliera entro i 100 e 150 UI/die, capace di scongiurare maggiormente il rischio della temibile OHSS severa, senza probabilmente influire negativamente sulle possibilità di ottenimento di gravidanza [27].
Per giunta, la revisione sistematica della letteratura Cochrane del 2018, inerente la stimolazione ovarica controllata nella FIV, sostiene che le prove attuali non forniscono una chiara giustificazione nella personalizzazione della dose standard di 150 UI nel caso di presunti poor o normal responder, anche soprattutto alla luce del fatto che l’aumento della dose è generalmente associato a maggiori costi. Tuttavia, una dose diminuita in coloro che si prevede possano iper-rispondere è giustificabile al fine di ridurre l’incidenza di OHSS [23].
A tal riguardo le ultime linee guida ESHRE sulla stimolazione ovarica consigliano [2]:
nelle prevedibili iper-responder: l’eventuale possibilità di utilizzo di basse dosi di gonadotropine al fine di scongiurare maggiormente il rischio di OHSS nei cicli che non prevedono l’utilizzo di protocollo antagonista e induzione con agonisti del GnRH e successiva segmentazione del ciclo e congelamento ovocitario e/o embrionario, ma trasferimento “a fresco”;
nelle prevedibili poor responder: sconsigliano, perché privo di comprovati benefici clinici, l’impiego di dosi di gonadotropine maggiori di 300 UI/die.
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Dott Kunderfranco
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